CLIVE BARKER
LIBRO DI SANGUE 2
ECTOPLASM
(Books Of Blood – Volume 2, 1984)
Siamo tutti libri di sangue;
in qualunque punto ci aprano,
siamo rossi.
A Johnny
Paura
Non vi è piacere eguale alla paura. Se fosse possibile sedere rendendosi invisibili fra due persone su di un treno, in una qualsiasi sala d'attesa o in un ufficio, la conversazione che potremmo udire non farebbe che girare attorno allo stesso argomento. In un primo momento, potrebbe certamente sembrare che la discussione verta su di un tema completamente diverso: l'economia nazionale, le vittime degli incidenti stradali, le parcelle sempre più salate dei dentisti. Ma tolte metafore e allusioni, ecco che annidata nel cuore del discorso vi è la paura. Mentre la natura di Dio e la possibilità di vita eterna rimangono nel dimenticatoio, rimuginiamo tutti contenti le minuzie delle nostre miserie. La sindrome non riconosce confini. In vacanza così come al lavoro, si ripete lo stesso rituale. Con l'inevitabilità della lingua che batte dove il dente duole, ritorniamo pedissequamente alle nostre paure. Ne parliamo con la stessa bramosia di un uomo affamato davanti ad un piatto colmo e fumante.
Quando ancora frequentava l'università e aveva paura di esprimersi, a Stephen Grace venne insegnato a parlare del perché avesse paura. Per essere più precisi, non solo a parlarne, ma ad analizzare e a sezionare i recessi più intimi, alla ricerca della più piccola paura.
In questa ricerca ebbe un maestro: Quaid.
Erano gli anni dei guru. Era il loro momento. Nelle università inglesi ragazzi e ragazze, guardavano a oriente e a occidente alla ricerca di persone da seguire come pecorelle. Steve Grace era uno dei tanti. La sua sfortuna fu di trovare Quaid come messia.
Si erano conosciuti al bar dell'università.
"Io mi chiamo Quaid," disse l'uomo che stava a fianco di Steve.
"Ah."
"Tu sei?..."
"Steve Grace."
"Sì. Sei nel corso di etica, giusto?"
"Giusto."
"Non ti ho mai visto ai seminari e alle lezioni di filosofia."
"È la materia complementare che seguo quest'anno. Io sono di lingue. È che non riuscivo a sopportare l'idea di sorbirmi per un anno le lezioni del vecchio Norse."
"E così hai preferito etica."
"Sì."
Quaid ordinò un brandy doppio. Non aveva l'aspetto della persona danarosa e, per quanto riguardava Steve, un brandy doppio l'avrebbe certamente lasciato al verde per un'intera settimana. Quaid lo scolò tutto d'un fiato e ne ordinò un altro.
"Che cosa vuoi?"
Steve stava religiosamente sorseggiando una birra chiara piccola, con la ferrea determinazione di farla durare almeno un'ora.
"Niente, grazie."
"Ma sì."
"Sul serio, sono a posto così."
"Un altro brandy e una birra grande per il mio amico."
Steve non resistette alla generosità di Quaid. Una birra e mezzo a digiuno lo avrebbe sicuramente aiutato ad attutire la noia che lo attendeva con il prossimo seminario su "Charles Dickens visto come analista sociale". Solo al pensiero gli venne da sbadigliare.
"Qualcuno dovrebbe scrivere una tesi sul bere come attività sociale."
Quaid studiò un attimo il brandy, poi lo trangugiò.
"O come oblio," aggiunse.
Steve lo osservò più attentamente. Non più ventenne, doveva avere forse cinque anni più di Steve. L'accozzaglia d'indumenti che indossava era disorientante. Scarpe da tennis malconce, pantaloni a coste, una camicia grigiastra che aveva visto giorni migliori e una costosissima giacca di pelle nera che ciondolava sgraziatamente sulla sua figura alta e magra. Il viso era insignificante. Gli occhi erano di un azzurro slavato, un colore così tenue che sembrava perdersi nel bianco, lasciando visibili solo le fibrille dell'iride dietro le lenti spesse. Labbra carnose, come Jagger, ma pallide, secche e nient'affatto sensuali. Capelli di un biondo sporco.
Steve arrivò alla conclusione che Quaid poteva tranquillamente passare per uno spacciatore olandese.
Non portava distintivi, manifesti delle ossessioni di tutti gli studenti, Quaid sembrava nudo senza qualcosa che chiarisse da dove attingeva i suoi piaceri. Era un gay, un femminista, un verde, oppure un vegetariano fascista? Da che parte stava, per Dio?
"Avresti dovuto seguire il vecchio Norse," disse Quaid.
"Perché?"
"Non si prendono neanche la briga di valutare le prove scritte a quel corso," disse Quaid.
Steve non ne aveva udito parlare. Quaid proseguì monotonamente.
"Gettano semplicemente tutti i fogli in aria, dopo di che su quelli che cadono a faccia in su mettono una bella A e su quelli a faccia in giù una bella B."
Non poteva essere vero. Quaid stava facendo lo spiritoso. Steve azzardò una risata, ma il volto di Quaid rimase impassibile.
"Dovresti essere alle lezioni del vecchio Norse," disse ancora una volta. "Comunque, chi ha bisogno di Berkeley. O di Platone o..."
"O?"
"È tutto uno schifo."
"Già."
"Ti ho osservato, nell'ora di filosofia..."
In Steve cominciò a farsi strada la curiosità per quell'uomo.
"Non prendi mai appunti, non è vero?"
"No."
"Mi sono detto: o sa tutto oppure non gliene frega assolutamente niente."
"Né l'una né l'altra cosa. Sono completamente perso, ecco tutto."
Quaid grugnì e tirò fuori un pacchetto di sigarette ultraeconomiche. Ancora una volta, era controcorrente. L'obbligo era di fumare Gauloises, Camel oppure niente del tutto.
"Qui non t'insegnano la vera filosofia," disse Quaid con evidente disprezzo.
"Davvero?"
"Riceviamo un insegnamento all'acqua di rose. Un po' di Platone qui, un po' di Bentham. Analisi vera e propria, zero. Ovviamente ha tutti i segni distintivi che si rispettino. Assomiglia alla bestia: profuma persino un po' come la bestia per un profano."
"Che bestia?"
"La filosofia. La vera filosofia. È una bestia, Stephen. Non credi?"
"Io non..."
"È feroce. Morde."
Fece un sorriso furbesco.
"Sì. Morde," ripetè.
Oh, come gli faceva piacere. Ancora una volta, per gradire: "Morde."
Stephen annuì. La metafora andava al di là della sua comprensione.
"Io credo che dovremmo sentirci bistrattati dall'argomento che vorremmo trattare." La mutilazione perpetrata dall'educazione era l'argomento sul quale Quaid si stava accalorando. "Dovremmo temere di manipolare le idee di cui dovremmo parlare."
"Perché?"
"Perché se fossimo dei filosofi, con la F maiuscola, non staremmo qui a scambiarci convenevoli accademici. Non parleremmo di semantica. Non useremmo giochi di parole per nascondere i fatti concreti."
"E che cosa faremmo?"
Steve cominciava a sentirsi come la spalla di Quaid. Tranne che Quaid non aveva l'aria di scherzare. L'espressione del suo viso era risoluta: le fibrille dell'iride si erano chiuse a formare dei puntini.
"Dovremmo avvicinarci alla bestia, Steve, non credi? Allungare una mano e e accarezzarla, vezzeggiarla, mungerla..."
"Che cosa... che cos'è la bestia?"
Quaid era visibilmente indispettito dal pragmatismo della domanda.
"È l'argomento di qualsiasi filosofia che si rispetti, Stephen. Sono le cose di cui abbiamo paura, perché non le comprendiamo. È il buio dietro la porta."
Steve pensò a una porta. Pensò al buio. Cominciò a comprendere dove voleva andare a parare Quaid con quei suoi giri di parole. La filosofia era un modo per parlare della paura.
"Dovremmo discutere di ciò che c'è nella nostra psiche di più intimo," disse Quaid. "Se non lo facciamo, rischiamo..."
La loquacità lo abbandonò improvvisamente.
"Che cosa?"
Quaid si era messo a fissare il bicchiere vuoto, dando l'impressione che desiderasse vederlo pieno.
"Un altro?" chiese Steve, pregando che la risposta fosse negativa.
"Che cosa rischiamo?" Quaid riformulò la domanda. "Be', io credo che se non usciamo e andiamo a cercare la bestia..."
Steve già sapeva qual era la battuta finale.
"... Prima o poi sarà lei a venire a cercarci."
Non vi è piacere eguale alla paura finché appartiene a qualcun altro.
Nelle settimane che seguirono, Steve cercò senza dare nell'occhio qualche informazione su quello strano personaggio.
Nessuno conosceva il suo nome di battesimo.
Nessuno sapeva con certezza che età avesse. Una delle segretarie riteneva che superasse la trentina, notizia decisamente sorprendente.
Cheryl gli aveva sentito dire che i genitori erano morti. Uccisi, pensava lei.
Di più il mondo non sembrava sapere su Mister Quaid.
"Ti devo un drink," disse Steve, toccando Quaid sulla spalla.
Sembrava che fosse stato bastonato.
"Brandy?"
"Grazie."
Steve fece l'ordinazione.
"Ti ho spaventato?"
"Stavo pensando."
"Nessun filosofo dovrebbe esserne sprovvisto."
"Sprovvisto di che?"
"Un cervello."
Si ritrovarono a parlare. Steve non sapeva perché avesse riavvicinato Quaid. L'uomo aveva dieci anni più di lui e apparteneva ad una generazione intellettuale diversa dalla sua. Probabilmente ne era intimidito, se doveva essere onesto. Gli inesorabili discorsi di Quaid sulle bestie lo confondevano. Tuttavia voleva udire ancora quelle cose, ancora metafore, ancora quella voce monotona che gli diceva quanto inutili fossero gli insegnanti e quanto deboli gli studenti.
Nel mondo di Quaid non vi erano certezze. Non aveva guru secolari e certamente nessuna religione. Sembrava incapace di esaminare un qualsiasi sistema, politico o filosofìa), senza cinismo.
Accadeva raramente che scoppiasse in una risata fragorosa, ma anche in quel caso Steve sapeva che la sua visione del mondo era pessimistica. Le persone erano agnelli e pecore, alla ricerca di pastori. Ovviamente questi pastori non erano che un'illusione, dal punto di vista di Quaid. Tutto ciò che esisteva, nell'oscurità fuori dell'ovile, erano le paure che sceglievano la preda innocente e attendevano, pazienti come pietre, il momento opportuno.
Tutto doveva essere messo in dubbio, tranne il fatto che la paura esisteva.
L'arroganza intellettuale di Quaid era stimolante. Steve arrivò presto ad amare la facilità iconoclasta con cui demoliva credo dopo credo. A volte era doloroso quando Quaid formulava una tesi inconfutabile contro uno dei dogmi di Steve. Ma dopo qualche settimana, persino il suono della distruzione sembrava essere eccitante. Quaid stava ripulendo il sottobosco. Sradicando i pilastri della cultura, stava facendo piazza pulita delle nozioni acquisite. Steve si sentiva liberato.
Nazione, famiglia, chiesa, legge. Nient'altro che cenere. Tutto inutile. Tutti inganni e catene e oppressione.
C'era solo la paura.
"Io ho paura, tu hai paura, noi abbiamo paura," amava ripetere Quaid. "Egli, ella o esso ha paura. Non vi è essere cosciente sulla faccia della terra che non conosca la paura più intimamente di quanto conosce il battito del suo cuore."
Una delle vittime favorite di Quaid era Cheryl Fromm, un'altra studentessa di filosofia e letteratura inglese. Abboccava alle sue affermazioni più oltraggiose come il pesce all'esca e mentre i due si scambiavano bordate micidiali, Steve si ritraeva un poco e osservava lo spettacolo. Cheryl era, nella fraseologia di Quaid, un'ottimista patologica.
"E tu hai la testa piena di stronzate," ribattè lei durante una discussione che si stava surriscaldando. "A chi importa se hai paura della tua ombra? A me no. Io non ho problemi."
Il suo atteggiamento non la smentiva. Cheryl Fromm era materiale da sogni erotici, ma era troppo sveglia perché qualcuno avesse il coraggio di abbordarla.
"Tutti noi di tanto in tanto proviamo paura," diceva Quaid di rimando e i suoi occhi lattiginosi studiavano il suo volto intensamente per osservare la sua reazione, per cercare di trovare un'incrinatura nelle sue convinzioni.
"Io no."
"Niente paure? Niente incubi?"
"Niente di niente. Vengo da un'ottima famiglia. Non ho scheletri nell'armadio. Non mangio neanche la carne, perciò non mi sento male quando passo davanti a un macellaio. Non ho schifezze da mettere in mostra. Questo significa che sono irreale?"
"Significa," gli occhi di Quaid erano diventati delle fessure, "significa che la tua sicurezza ha qualcosa di grande da nascondere."
"Ci risiamo con gli incubi."
"Grandi incubi."
"Sii più chiaro: definisci i tuoi termini."
"Non posso dirti ciò di cui hai paura."
"Allora dimmi di che cosa hai paura tu."
Quaid esitò. "Ebbene," disse, "va al di là dell'analisi."
"Al di là dell'analisi, il mio culo!"
Steve sorrise involontariamente. Il culo di Cheryl andava veramente al di là di ogni analisi. Non c'era che da inginocchiarsi in adorazione.
Quaid si era tuffato nuovamente nella sua oratoria.
"Ciò di cui ho paura è un fatto personale. Non ha senso in un contesto più ampio. I segni della mia paura, le immagini che il mio cervello usa, se preferisci, per dar corpo alla mia paura, quei segni sono quisquilie se paragonati al vero orrore che sta alla radice della mia personalità."
"Io ho delle immagini," disse Steve. "Immagini dell'infanzia che mi fanno pensare..." Si fermò, pentendosi immediatamente di quella confessione.
"Che cosa?" disse Cheryl. "Vuoi dire qualche brutta esperienza? Tipo che sei caduto dalla bicicletta o qualcosa del genere?"
"Forse," disse Steve. "A volte mi ritrovo a pensare a quelle immagini. Non deliberatamente. Solo quando la mia mente divaga. È quasi come se lei stessa vi andasse automaticamente."
Quaid emise un lieve grugnito di soddisfazione. "Precisamente," disse.
"Freud ne ha scritto," disse Cheryl.
"Come?"
"Freud," ripetè Cheryl, accompagnando questa volta le sue parole con una mimica, come se stesse parlando a un bambino. "Sigmund Freud: devi averne sentito parlare."
Il labbro di Quaid si distorse in un irrefrenabile disgusto. "Il complesso di Edipo non esaurisce il problema. Le vere paure, quelle che ci sono in me, in tutti noi, vengono molto prima della personalità. La paura esiste prima che abbiamo qualsiasi nozione di noi stessi come individui. L'unghia del pollice, ricurva su se stessa nell'utero, sente paura."
"Tu lo ricordi, non è vero?" disse Cheryl.
"Forse," rispose Quaid, mortalmente serio.
"Cosa? L'utero?"
Quaid fece una specie di mezzo sorriso. Steve pensò che volesse dire: "Io so cose che tu non sai."
Era un sorriso strano, spiacevole. Un sorriso che Steve voleva dimenticarsi.
"Sei un bugiardo," disse Cheryl, scattando in piedi e guardando con disprezzo Quaid.
"Forse è vero," ammise lui, diventando all'improvviso un perfetto gentiluomo.
Dopo quella volta, non ci furono più discussioni.
Non si parlò più di incubi, non si discusse più delle cose in cui ci s'imbatte la notte. Steve vide Quaid irregolarmente nelle settimane successive e quando gli capitava, Quaid era invariabilmente in compagnia di Cheryl Fromm. Quaid era gentile con lei, persino deferente. Non indossava più la giacca di pelle, perché Cheryl ne detestava l'odore di materia organica e cadaverica. Quell'improvviso cambiamento nel loro rapporto disorientò Stephen, che addebitò la sua confusione alla sua comprensione ancora primitiva delle questioni sessuali. Non era certo un verginello, ma le donne continuavano a essere un mistero per lui: contraddittorie ed enigmatiche.
Era anche geloso, anche se non voleva ammetterlo completamente. Era risentito del fatto che quel genio da sogni erotici occupasse tanta parte del tempo di Quaid.
C'era un'altra sensazione. Aveva la strana percezione che Quaid stesse corteggiando Cheryl per ragioni particolari tutte sue. Il sesso non era la molla che spingeva Quaid, di questo era sicuro. Neanche l'ammirazione per l'intelligenza di Cheryl giustificava le sue attenzioni. Le stava in qualche modo tendendo una trappola. Questo gli diceva l'istinto. Cheryl Fromm stava per essere portata al macello.
Dopo un mesetto, durante una conversazione, Quaid si lasciò scappare un commento su Cheryl.
"È vegetariana," disse.
"Cheryl?"
"Ma sì, certo, Cheryl."
"Lo so. L'aveva detto una volta."
"Sì, ma per lei non è una moda. Questa cosa la travolge completamente, non può neanche sopportare di guardare nella vetrina di un macellaio. Non toccherebbe la carne, non l'annuserebbe..."
"Ah." Steve era sconcertato. Dove voleva andare a parare?
"Paura, Steve."
"Della carne?"
"I segni sono diversi da persona a persona. Lei ha paura della carne. Dice di essere così sana, così equilibrata. Merda! La troverò..."
"Trovare cosa?"
"La paura, Steve."
"Non vorrai...?" Steve non sapeva come esprimere la sua ansia senza sembrare accusatorio.
"Farle del male?" disse Quaid. "No. Non ho assolutamente intenzione di farle del male. Qualsiasi danno fatto alla sua persona sarebbe strettamente autoinflitto."
Quaid lo stava fissando in modo quasi ipnotico.
"E tempo che impariamo a fidarci uno dell'altro," proseguì Quaid. Poi si fece più vicino. "Fra noi due..."
"Senti. Non voglio sapere niente."
"Ma dobbiamo toccare la bestia, Stephen."
"Al diavolo la bestia! Non voglio sentire niente!"
Steve si alzò, più per rompere l'oppressione di quello sguardo, che non per interrompere la conversazione.
"Siamo amici, Stephen."
"Sì..."
"Allora rispetta questo."
"Questo cosa?"
"Il silenzio. Non una parola."
Steve annuì. Non era una promessa difficile da mantenere. Del resto non c'era nessuno a cui poter confidare le sue ansie senza che venisse deriso.
Quaid sembrava soddisfatto e se ne andò in fretta e furia, lasciando Steve con la sensazione di aver supinamente aderito a qualche società segreta, con scopi misteriosi. Quaid aveva fatto un patto con lui e questo lo spaventava.
La settimana dopo, Steve disertò tutte le lezioni e gran parte dei seminari. Gli appunti non vennero copiati, i libri rimasero intonsi, gli esercizi non furono compilati. Le sole due volte che si recò all'università, strisciò attorno come un topo ipercauto, pregando di non imbattersi in Quaid.
Non aveva bisogno di avere paura. Quando gli capitò di vedere Quaid di spalle, era coinvolto in uno scambio di sorrisi con Cheryl Fromm. Lei rideva musicalmente, il suo piacere echeggiava sulla parete dell'istituto di storia. La gelosia lo aveva abbandonato immediatamente. Neanche se l'avessero pagato a peso d'oro avrebbe voluto essere così vicino a Quaid, così in intimità con lui.
Nel periodo che trascorse da solo, lontano dalle aule gremite di gente e dai corridoi strapieni, la mente di Steve ebbe il tempo di oziare. Come la lingua al dente, come l'unghia alla crosta, i suoi pensieri ritornarono alle sue paure.
E da lì alla sua infanzia.
All'età di sei anni, Steve era stato investito da un'auto. Le lesioni non erano particolarmente gravi, ma la commozione cerebrale lo aveva lasciato parzialmente sordo. Per lui era stata un'esperienza profondamente angosciante; non riusciva a capire perché fosse stato tagliato fuori dal mondo così all'improvviso. Era stato un tormento inspiegabile e aveva pensato che sarebbe durato in eterno.
Un attimo prima la sua vita era stata reale, piena di grida e di risa. L'attimo dopo ne era stato tagliato fuori e il mondo esterno era divenuto un acquario, pieno di pesci boccheggianti dai sorrisi grotteschi. A peggiorare la situazione, c'erano delle volte in cui cominciava a sentire dei rumori frastornanti e dei ronzii nelle orecchie; un disturbo che i medici chiamavano tinnito. Nella testa si affollavano i suoni più inconsueti, grida e sibili, simili ad effetti sonori che accompagnavano i flagelli del mondo esterno. In quelle occasioni lo stomaco cominciava a contorcerglisi e si sentiva la testa stretta in una morsa d'acciaio, che riduceva i suoi pensieri in poltiglia, dissociando la testa dalla mano, il pensiero dall'azione. Veniva sopraffatto da un'ondata di panico, completamente incapace di dare un senso al mondo, mentre la testa gli rimbombava e fischiava.
Ma con la notte sopraggiungeva l'incubo peggiore. A volte si svegliava in quello che era stato (prima dell'incidente) il rassicurante utero della sua stanza, per scoprire che i ronzii erano iniziati nel sonno.
Sbarrava gli occhi terrorizzato. Il corpo madido di sudore. La testa piena di frastuoni rauchi, in cui era imprigionato, senza poter sperare in una tregua. Nulla poteva zittire la sua testa e nulla, così sembrava, avrebbe potuto restituirgli quel mondo pieno di parole e di risa.
Era solo.
Quella era la fase iniziale, intermedia e finale della paura. Era completamente solo con la sua cacofonia. Rinchiuso in quella camera, in quella casa, in quel corpo, in quella testa. Prigioniero di carne accecata, sorda.
Era quasi insopportabile. C'erano delle notti in cui si svegliava urlando, non rendendosi conto che non produceva alcun suono e i pesci, che in quel caso erano i suoi genitori, accendevano la luce e correvano da lui per cercare di confortarlo. Si chinavano sul suo letto e facevano delle strane smorfie, le labbra mute formavano delle forme orribili nel tentativo di aiutarlo. Le loro carezze, alla fine, riuscivano a calmarlo. Con il tempo, sua madre trovò il modo di placare il panico che lo sconvolgeva.
Una settimana prima del suo settimo compleanno l'udito gli ritornò, non perfettamente, ma quanto bastava per sembrare un miracolo. Il mondo ritornò bruscamente a fuoco. La vita cominciava di nuovo. Ci vollero diversi mesi prima che riacquistasse fiducia nei suoi sensi. Si sarebbe svegliato ancora la notte, quasi anticipando i rumori nella testa.
Gli era rimasto un leggero sibilo, che gli impediva di andare ai concerti rock con i suoi coetanei, ma quasi non si accorgeva più di quel piccolo difetto.
Ricordava, ovviamente. Molto bene. Era in grado di rivivere il gusto del panico. La sensazione della morsa d'acciaio intorno alla testa. In quello c'era un residuo di paura: paura del buio, paura di essere solo.
Ma del resto, chi non aveva paura della solitudine? Della solitudine totale.
Steve aveva un'altra paura, adesso, ma molto più difficile da padroneggiare.
Quaid.
Durante una confessione resa nei fumi dell'alcol, aveva raccontato a Quaid della sua infanzia, della sordità, degli incubi notturni.
Quaid conosceva la sua debolezza: una strada che andava direttamente al cuore della paura di Steve. Aveva un'arma, un bastone con cui colpire Steve, se mai ve ne fosse stata l'occasione. Forse quella era stata la ragione per cui aveva scelto di non parlare a Cheryl (metterla in guardia, era quello che voleva fare?) e certamente era il motivo per cui evitava Quaid.
C'erano volte in cui la sua espressione diventava nostalgica. Né più né meno. Dava l'impressione di un uomo la cui malizia risiedeva nei recessi più profondi della sua anima.
Forse, in quei quattro mesi in cui la sordità lo aveva costretto ad osservare il prossimo, Steve aveva acquisito una maggiore sensibilità per gli sguardi, i sogghigni e i sorrisi che animano i volti della gente. Sapeva che la vita di Quaid era un labirinto, i cui percorsi tortuosi erano incisi sul suo volto in una miriade di piccole espressioni.
La fase successiva dell'iniziazione di Steve nel mondo segreto di Quaid ebbe luogo dopo circa tre mesi e mezzo. L'università chiuse per il periodo estivo e gli studenti andarono per le loro strade. Steve trascorse come al solito le sue vacanze lavorando nella tipografia di suo padre. Erano lunghe giornate di lavoro, fisicamente estenuanti, ma d'innegabile sollievo per lui. L'attività universitaria gli aveva imbottito la testa, si sentiva pieno a dismisura di parole e di idee. Il lavoro disperse ben presto quel carico eccessivo, allontanando la confusione dalla sua mente.
Fu un bel periodo. Non pensò quasi mai a Quaid.
Ritornò al campus verso la fine di settembre. C'erano ancora pochi studenti in giro. La maggior parte dei corsi sarebbe iniziata di lì a una settimana. Regnava un'aria malinconica, senza la consueta baraonda fatta di lamentele, corteggiamenti e litigi.
Steve era in biblioteca, stava facendo la posta ad alcuni testi importantissimi prima che altri del suo corso vi potessero mettere le mani. All'inizio dell'anno accademico, i libri erano preziosi come oro puro, con la lista dei testi da spuntare e la libreria dell'università che ripeteva monotonamente che i testi erano stati ordinati. Arrivavano invariabilmente, quei libri vitali, due giorni dopo il seminario in cui si doveva discutere dell'autore. Quest'ultimo anno, Steve era deciso ad anticipare la corsa frenetica per l'accaparramento delle poche copie dei lavori dei seminari che la biblioteca possedeva.
Riconobbe la voce all'istante.
"Siamo mattinieri."
Steve alzò lo sguardo e incontrò gli occhi stretti di Quaid.
"Sono impressionato, Steve."
"Da cosa?"
"Dal tuo entusiasmo per il lavoro."
"Oh."
Quaid sorrise. "Cosa stai cercando?"
"Qualcosa su Bentham."
"Io ho 'Principi morali e legislazione'. Ti può andar bene?"
Era una trappola. No. Era assurdo. Gli stava offrendo un libro. Com'era possibile che un semplice gesto come quello potesse essere interpretato come una trappola?
"Pensaci," e il sorriso si allargò, "credo di avere la copia della biblioteca. Te la posso dare."
"Grazie."
"Passate buone vacanze?"
"Sì. Grazie. E tu?"
"Molto soddisfacenti."
Il sorriso ora si era trasformato in una fessura sottile sotto i...
"Ti sei fatto crescere i baffi."
Niente di cui vantarsi, anzi: una rada peluria color biondo sporco vagava sotto il naso di Quaid, come se cercasse una via d'uscita dalla sua faccia. Quaid sembrò leggermente imbarazzato.
"L'hai fatto per Cheryl?"
Ora era definitivamente imbarazzato.
"Be'..."
"Sembra che tu abbia passato proprio una bella vacanza."
L'imbarazzo fu sopraffatto da qualcos'altro.
"Ho delle fotografie bellissime," esclamò Quaid.
"Di che cosa?"
"Istantanee delle vacanze."
Steve non riusciva a credere alle sue orecchie. Cheryl Fromm aveva addomesticato Quaid? Istantanee delle vacanze?
"Alcune non ti sembreranno vere."
C'era qualcosa, nei modi di Quaid, che gli ricordava gli Arabi quando cercano di vendere delle cartoline pornografiche. Che diavolo erano queste fotografie? Inquadrature di Cheryl, ripresa mentre legge Kant?
"Non ti ci vedo nei panni del fotografo."
"È diventata una passione per me."
Sogghignò, mentre pronunciava la parola "passione". Nei suoi modi c'era un'eccitazione appena contenuta. Risplendeva di piacere.
"Devi venire a vederle."
"Non..."
"Stasera. Così ti prendi anche il Bentham."
"Grazie."
"Sono andato a vivere da solo ultimamente. Ho preso una casa vicino all'ospedale, in via del Pellegrino. Al sessantaquattro. Ci vediamo dopo le nove?"
"D'accordo. Grazie. Via del Pellegrino."
Steve scosse la testa.
"Non sapevo che ci fossero delle case abitabili in via del Pellegrino."
"Al sessantaquattro."
Via del Pellegrino era in ginocchio. La maggior parte delle case non erano che ruderi. Alcune erano mature per la demolizione. Le pareti interne erano esposte in modo innaturale: tappezzerie rosa e verde pallido, camini ai piani superiori sospesi su baratri di mattoni anneriti, scale che partivano dal nulla e non portavano da nessuna parte e viceversa.
Il numero sessantaquattro era una cosa a sé. Le case adiacenti erano state demolite e i bulldozer che avevano portato via le macerie avevano lasciato un deserto compatto di detriti che qualche erbaccia robusta e temeraria aveva cercato di popolare.
Un cane bianco con tre zampe stava perlustrando il suo territorio lungo il marciapiede del numero sessantaquattro e a intervalli regolari marcava con una spruzzatina la sua proprietà.
La casa di Quaid non era lussuosa, ma era certamente più accogliente della devastazione che regnava all'esterno.
Bevvero del pessimo vino rosso portato da Steve e fumarono dell'erba. Steve non l'aveva mai visto così gioviale. Sembrava contento di parlare di cose banali invece che di paura. Rise in un paio di occasioni e gli raccontò persino una barzelletta sporca. La casa all'interno era spartana al punto d'essere spoglia, senza quadri alle pareti, senza suppellettili. I libri di Quaid, e ce n'erano letteralmente a centinaia, erano accatastati sul pavimento apparentemente alla rinfusa. La cucina e il bagno erano primitivi. L'atmosfera era quasi monastica.
Dopo un paio d'ore trascorse piacevolmente, la curiosità di Steve ebbe la meglio.
"Allora, dove sono queste istantanee delle vacanze?" disse, consapevole che strascicava un po' le parole, ma ormai non gliene fregava proprio niente.
"Ah, sì. Il mio esperimento."
"Esperimento?"
"Per dirti la verità, Steve, non so se devo fartele vedere."
"Perché no?"
"Sono impegnato in cose serie, Steve."
"Ed io non sono pronto per. questo genere di cose serie. È questo che vuoi dire?"
Quaid lo stava catturando con la sua tattica dilatoria ma Steve non riusciva a resistergli.
"Non ho detto questo..."
"Ma che diavolo è questa roba?"
"Fotografie."
"Di?"
"Ricordi Cheryl?"
Fotografie di Cheryl. Già.
"E come potrei dimenticare?"
"Non tornerà all'università, almeno per questo primo periodo."
"Oh."
"Ha ricevuto l'illuminazione."
Quaid aveva uno sguardo che sembrava potesse provocare la morte di qualcuno.
"Cosa vuoi dire?"
"Era sempre così calma, non è vero?" disse Quaid parlando di lei come se fosse morta. "Così impassibile."
"Sì, suppongo che lo fosse."
"Povera puttanella. Tutto ciò che voleva era una bella scopata."
Steve sorrise compiaciuto a quelle parole. Fu un po' scioccante. Come vedere il proprio maestro con il pene in bella mostra.
"Ha trascorso parte delle vacanze qui."
"Qui?"
"In questa casa."
"Allora ti piace."
"Era una vacca ignorante. Presuntuosa. Debole. Stupida. Ma non voleva mollare, non voleva mollare a nessun costo."
"Vuoi dire che non ci stava?"
"Oh no. Al primo sguardo si sarebbe tirata giù le mutande. Non voleva mollare sulle sue paure..."
Lo stesso vecchio ritornello.
"Ma l'ho convinta, a tempo debito."
Quaid prese una scatola da dietro una pila di libri di filosofia. Conteneva un mazzo di foto in bianco e nero, di un formato due volte quello di una cartolina. Passò la prima della serie a Steve.
"L'ho rinchiusa. Capisci, Steve?" Quaid era impassibile come un telecronista. "Per vedere se riuscivo a provocarla fino al punto di mostrarle un poco le sue paure."
"Cosa vuoi dire con rinchiusa?"
"Di sopra."
Steve si sentì strano. Le orecchie gli ronzavano, ma molto debolmente. Quando beveva del vinaccio la testa gli rimbombava sempre.
"L'ho rinchiusa di sopra," ripetè Quaid, "per un esperimento. Ecco perché ho preso questa casa. Non ci sono vicini che possono sentire."
"Vicini che possono sentire che cosa?"
Steve guardò l'immagine sgranata che teneva fra le mani.
"La macchina fotografica era nascosta," disse Quaid, "non si è mai accorta che la stavo fotografando."
La Fotografia numero Uno mostrava una stanza piccola, squallida. Un mobilio molto semplice.
"Questa è la stanza. Nel sottotetto. Calda. L'aria un po' stantia. Nessun rumore."
Nessun rumore.
Quaid esibì la Fotografia numero Due.
Stessa stanza. Gran parte del mobilio era stato eliminato. A ridosso di una parete era disteso un sacco a pelo. Un tavolo. Una sedia. Una lampadina senza paralume.
"Ecco come ho sistemato la stanza per lei."
"Sembra una cella."
Quaid grugnì.
Fotografia numero Tre. Stessa stanza. Sul tavolo una brocca d'acqua. In un angolo della stanza, un secchio, coperto con una salvietta.
"A che serve il secchio?"
"Doveva pisciare."
"Eh già."
"Le ho fornito tutte le comodità," disse Quaid. "Non intendevo ridurla ad un animale."
Per quanto fosse in stato confusionale, Steve colse la sfumatura. Non intendeva ridurla ad un animale. Tuttavia...
Fotografia numero Quattro. Sul tavolo, un piatto con una fetta di carne. Da cui fuoriusciva un osso.
"Carne di manzo," disse Quaid.
"Ma lei è vegetariana."
"Proprio così. Leggermente salata, ben cotta, un'ottima carne."
Fotografia numero Cinque. Lo stesso. Cheryl è nella stanza. La porta è chiusa. Cheryl sta prendendo a calci la porta. Il piede, il pugno, il volto, un'unica immagine sfocata d'ira furibonda.
"L'ho portata nella stanza verso le cinque del mattino. Stava dormendo. L'ho portata in braccio oltre la soglia. Molto romantico. Non poteva immaginare."
"E l'hai rinchiusa lì?"
"Certo. Un esperimento."
"E lei non sapeva niente?"
"Abbiamo parlato della paura. Tu mi conosci. Sapeva ciò che volevo scoprire. Sapeva che stavo cercando delle cavie. Ma ha intuito subito. Una volta comprese le mie intenzioni si è calmata."
Fotografia numero Sei. Cheryl è seduta in un angolo della stanza. Sta pensando.
"Credo che in quel momento stesse pensando di potermi superare in astuzia."
Fotografia numero Sette. Cheryl guarda di sfuggita il pezzo di manzo sul tavolo.
"Bella foto, non credi? Guarda l'espressione di disgusto sulla sua faccia. Odiava persino l'odore della carne cotta. Ma ovviamente non aveva ancora fame."
Otto: dorme.
Nove: sta pisciando. Steve si sentiva a disagio di fronte all'immagine della ragazza accosciata sul secchio, con le mutande attorno alle caviglie e il volto rigato di lacrime.
Dieci: beve dell'acqua dalla brocca.
Undici: dorme di nuovo, nel suo cantuccio, rannicchiata come un feto.
"Quanto è rimasta nella stanza?"
"Oh, qui sono passate appena quattordici ore. Ha perso il senso del tempo abbastanza in fretta. La luce non cambiava mai. Il suo perfettissimo corpo si è fottuto quasi subito."
"Per quanto tempo è rimasta qui dentro?"
"Finché il nocciolo della questione non è stato dimostrato."
Dodici: è sveglia. Il suo sguardo incrocia la carne sul tavolo. Viene colta nell'attimo in cui si lascia sfuggire uno sguardo furtivo.
"Questa è stata fatta il mattino dopo. Io stavo dormendo. La macchina fotografica scattava ogni quarto d'ora. Ma guarda l'espressione dei suoi occhi..."
Steve esaminò più attentamente la fotografia. Sul volto di Cheryl c'era una certa disperazione: uno sguardo stravolto, folle. Fissava la carne come se stesse cercando di ipnotizzarla.
"Sembra che stia male."
"È solo stanca, ecco tutto. Dormiva molto, così come capitava, ma era come se tutto quel riposo la rendesse più esausta che mai. Adesso non sa se è giorno o notte. E ovviamente ha fame. È passato un giorno e mezzo. È qualcosa di più che semplice appetito."
Tredici: dorme di nuovo. Rannicchiata ancor di più su se stessa come se avesse voluto scomparire.
Quattordici: beve dell'altra acqua.
"Ho sostituito la brocca mentre stava dormendo. Aveva un sonno profondo. Avrei potuto ballare un samba là dentro senza che si svegliasse. Persa al mondo."
Ghignò. Pazzo, pensò Steve. Quest'uomo è pazzo.
"Dio, che tanfo c'era là dentro. Sai, quell'odore che hanno addosso le donne a volte. Non è sudore. È qualcos'altro. Un odore pesante. Di carne. Di sangue. Quando è venuta qui aveva ancora le mestruazioni. Non l'avevo previsto."
Quindici: tocca la carne.
"Il suo sistema comincia ad incrinarsi qui," disse Quaid, con moderato trionfo. "Qui ha inizio la paura."
Steve studiò la fotografia più da vicino. La grana dell'immagine sfocava i dettagli, ma l'impassibile donnina era palesemente sofferente. Il suo volto esprimeva confusione, da una parte desiderio, dall'altra repulsione al contatto con il cibo.
Sedici: sta scaricando la sua rabbia contro la porta. Ogni parte del suo corpo si sta agitando. La sua bocca è una chiazza nera di angoscia urlata contro una porta cieca e sorda.
"Ogni volta che entrava in conflitto con la carne, finiva per imprecare contro di me."
"Quanto tempo è passato?"
"Qui siamo a tre giorni. Stai vedendo una donna affamata."
Non era una cosa difficile da constatare. La foto successiva mostrava Cheryl ancora in mezzo alla stanza, che cercava di distogliere gli occhi da quella tentazione, il corpo teso in quel dilemma.
"Ma la stai facendo morire di fame."
"Potrebbe andare avanti tranquillamente per una decina di giorni senza mangiare. Il digiuno è pratica comune in qualsiasi paese civilizzato, Steve. Il sessanta per cento della popolazione britannica è clinicamente obesa a qualsiasi età. E comunque era troppo grassa."
Diciotto: è seduta, la grassona, nel suo angolino. Sta piangendo.
"Qui inizia ad avere delle allucinazioni. Dei piccolissimi tic nervosi. Crede di sentire qualcosa fra i capelli, o sul palmo della mano. A volte l'ho sorpresa che fissava il vuoto."
Diciannove: si lava. È nuda fino alla cintola, i seni sono pesanti, il volto è privo d'espressione. La carne sembra più scura che nelle altre fotografie.
"Si lavava regolarmente. Non lasciava passare dodici ore senza lavarsi da capo a piedi."
"La carne sembra..."
"Stagionata?"
"Direi nera."
"Fa abbastanza caldo nella stanza. Ci sono anche delle mosche. Hanno trovato la carne: hanno fatto le uova. Sì, sta frollando abbastanza bene."
"E questo fa parte del piano?"
"Certo. Se il pensiero di mangiare la carne fresca la rivoltava, figuriamoci il suo disgusto di fronte alla carne putrefatta. Questo è il nodo del suo dilemma. Più aspetta a mangiare e più aumenterà la sua repulsione di fronte a ciò che le è stato offerto per sfamarsi. Da una parte combattuta dall'orrore della carne e dall'altra dalla paura di morire. Quale cederà per prima?"
Steve si trovava pressoché nella stessa situazione.
Da una parte, lo scherzo era già degenerato e l'esperimento di Quaid era diventato un esercizio di sadismo. Dall'altra, voleva sapere fino a che punto era stata spinta la storia. C'era un fascino innegabile nell'osservare quella donna soffrire.
Le altre sette fotografie, la venti, ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque e ventisei mostravano lo stesso ciclo di azioni. Dormire, lavarsi, pisciare, guardare la carne. Dormire, lavarsi, pisciare...
Poi, la ventisette.
"Vedi?"
Cheryl prende la carne.
Sì, prende la carne, il volto è una maschera d'orrore. La coscia di manzo è ad uno stadio avanzato di putrefazione. Punteggiata di larve di mosca. Ripugnante.
"La morde."
La fotografia successiva. Ha il volto affondato nella carne.
Steve sentì salire in gola il sapore della carne putrescente. La sua mente s'immaginò un fetore e creò un aroma di marcescenza che gli impregnò la bocca. Come aveva potuto farlo?
Ventinove: sta vomitando nel secchio.
Trenta: è seduta e sta guardando il tavolo. È vuoto. La brocca d'acqua è stata scaraventata contro il muro. Il piatto è stato frantumato. Il manzo giace sul pavimento in un viscidume di decomposizione.
Trentuno: dorme. La testa persa fra le braccia.
Trentadue: è in piedi. Guarda di nuovo la carne, con sfida. Fame e disgusto sono dipinti sul suo volto.
Trentatré. Dorme. "Quanto tempo è passato adesso?" chiese Steve.
"Cinque giorni. No. Sei."
Sei giorni.
Trentaquattro. L'immagine è sfocata. Sembra essersi gettata contro la parete. Forse si sta picchiando la testa contro il muro. Steve non era sicuro. Tralasciò di chiedere. Una parte di lui non voleva sapere.
Trentacinque: sta di nuovo dormendo. Questa volta sotto il tavolo. Il sacco a pelo è stato fatto a pezzi. Brandelli di tessuto e pezzi d'imbottitura sparsi ovunque nella stanza.
Trentasei: parla alla porta. Attraverso la porta. Sapendo che non avrà risposta.
Trentasette: sta mangiando la carne marcia.
Siede tranquilla sotto il tavolo. Come un uomo primitivo nella caverna. Addenta la carne con gli incisivi. Il suo volto è sempre senza espressione. Tutta l'energia è concentrata sullo scopo del momento. Mangiare. Mangiare finché la fame scompare. Finché scompaiano l'agonia che le strazia la pancia e la sofferenza che le dilania la testa.
Steve aveva lo sguardo fisso sulla fotografia.
"Mi ha veramente stupito," disse Quaid, "come si sia arresa così all'improvviso. Un attimo prima, sembrava che avesse una forza da leone. Il monologo alla porta era lo stesso miscuglio di minacce e scuse che aveva ripetuto per giorni e giorni. Poi si è spezzata. Così. Si è infilata sotto il tavolo e si è avventata sulla carne, spolpandola fino all'osso. Come se fosse un boccone prelibato."
Trentotto: dorme. La porta è aperta. Entra della luce.
Trentanove: la stanza è vuota.
"Dove è andata?"
"Ha cominciato a gironzolare qua sotto, poi è venuta in cucina, si è bevuta parecchi bicchieri d'acqua e si è seduta su una sedia per tre o quattro ore senza dire una parola."
"Le hai parlato?"
"Alla fine. Quando ha cominciato a uscire dal suo stato di fuga. L'esperimento era finito. Non volevo farle del male."
"Che cosa ha detto?"
"Nulla."
"Nulla?"
"Nulla di nulla. Per parecchio tempo credo che non si rendesse neanche conto della mia presenza nella stanza. Poi ho cucinato delle patate che ha mangiato."
"Non ha nemmeno cercato di chiamare la polizia?"
"No."
"Nessuna violenza?"
"No. Sapeva quello che avevo fatto e perché. Non lo avevamo organizzato, ma avevamo parlato di esperimenti di questo tipo, in conversazioni teoriche. Non ha riportato alcun danno. Forse ha perso qualche chilo, ma questo è tutto."
"Dov'è adesso?"
"Se n'è andata il giorno dopo. Non so dove."
"Tutto questo cosa prova?"
"Forse nulla. Ma ha segnato un interessante inizio per le mie ricerche."
"Inizio? Questo era solo l'inizio?"
C'era un palese disgusto per Quaid nella voce di Steve.
"Stephen..."
"Ma avresti potuto ucciderla!"
"No."
"Avrebbe potuto uscire di senno. Rimanere squilibrata per sempre."
"Forse. Ma molto improbabile. Era una donna con una volontà di ferro."
"Ma l'hai spezzata."
"Era un viaggio che era pronta a fare. Avevamo parlato di affrontare le sue paure. Ed io ero qui, per farle vivere quell'esperienza. Non ho fatto molto in realtà."
"Ma l'hai costretta a farlo. Non l'avrebbe fatto di sua spontanea volontà."
"Vero? Per lei è stato un atto educativo."
"Ah! Così adesso sei un maestro?"
Steve avrebbe desiderato che la sua voce non suonasse così sarcastica. Ma era lì. Il sarcasmo. La rabbia. E un po' di paura.
"Sì. Io sono un maestro," rispose Quaid, guardando Steve di sbieco, lo sguardo sfocato. "Io insegno alla gente la paura."
Steve fissò il pavimento. "Sei soddisfatto del tuo insegnamento?"
"E di ciò che ho imparato, Steve. Ho anche imparato. È una prospettiva veramente eccitante: un mondo di paure da studiare. Soprattutto con soggetti intelligenti. Persino di fronte alla razionalizzazione..."
Steve si alzò. "Non voglio sentire più niente."
"Okay."
"Domattina devo alzarmi presto."
"No."
"Che cosa?"
Un'impercettibile esitazione.
"No. Non andar via subito."
"Perché?" il cuore gli batteva all'impazzata. Aveva paura di Quaid. Non aveva mai compreso quanto profondamente lo temesse.
"Ho degli altri libri da darti."
Steve si sentì arrossire. Leggermente. Cosa aveva pensato per un momento? Che Quaid stesse per tramortirlo con una mazza da baseball per investigare le sue paure?
No. Che idiozia.
"Ho un libro su Kierkegaard che ti piacerà. Di sopra. Ci metto due minuti."
Sorridendo, Quaid lasciò la stanza.
Steve si accovacciò e cominciò a radunare le foto. Il momento in cui Cheryl aveva preso in mano per la prima volta il pezzo di carne marcia era quello che lo affascinava di più. Il suo volto aveva un'espressione completamente diversa da quella che le conosceva. Esprimeva dubbio, confusione e profonda...
Paura.
Era la parola di Quaid. Una parola sporca. Una parola oscena. Che da quella notte in poi sarebbe stata associata alla tortura che Quaid aveva inflitto a una ragazza innocente.
Per un attimo Steve pensò a quale fosse la sua espressione, mentre guardava la fotografia. Non c'era forse la stessa confusione sul suo volto? E forse anche un po' di paura, che aspettava di essere esternata.
Dietro di lui udì un rumore. Troppo lieve perché fosse Quaid.
A meno che non si stesse avvicinando furtivamente.
Oh, Dio! A meno che non stesse...
Uno straccio imbevuto di cloroformio gli fu stretto contro bocca e naso. Involontariamente inspirò e i vapori gli fecero lacrimare gli occhi.
Una macchia scura apparve all'angolo del mondo, dapprima sfocata, poi cominciò ad ingrandirsi, la macchia, pulsando al ritmo dei suoi battiti accelerati.
Al centro poteva sentire la voce di Quaid come velata. Pronunciò il suo nome.
"Stephen."
Ancora.
"...ephen."
"...phen."
"...hen."
"en."
La macchia era il mondo. Il mondo era l'oscurità. Svanito. Lontano dagli occhi lontano dal cuore.
Steve cadde goffamente in mezzo alle fotografie.
Quando si svegliò, non si rese subito conto di essere cosciente. Il buio regnava ovunque. Rimase sdraiato per circa un'ora con gli occhi spalancati, prima di capire che erano aperti.
Verificò le sue condizioni. Mosse dapprima le braccia e le gambe, poi la testa. Non era ridotto all'immobilità come si sarebbe aspettato, ma trattenuto per una gamba. Sentiva una catena o qualcosa di simile attorno alla caviglia sinistra. Gli raspava la pelle se la metteva in tensione.
Il pavimento era molto scomodo. Ad un esame più attento si accorse che giaceva su di un'enorme grata o sorta d'inferriata. Era di metallo e la superficie regolare si diffondeva in tutte le direzioni fin dove le sue braccia potevano arrivare. Quando infilò un braccio attraverso le sbarre di quella grata, non toccò nulla. Solo vuoto che sprofondava sotto di lui.
Le prime fotografie della segregazione di Stephen, scattate da Quaid, su pellicola a raggi infrarossi, lo riprendevano durante questa esplorazione. Come Quaid aveva previsto, il soggetto si comportava in modo piuttosto razionale di fronte alla situazione. Niente isterismi. Nessuna imprecazione, niente lacrime, e in questo stava la particolarità del soggetto: sapeva precisamente ciò che stava accadendo e avrebbe reagito in modo logico alle sue paure. Una mente sicuramente più difficile da piegare di quella di Cheryl.
Ma quanto sarebbero stati più gratificanti i risultati, quando alla fine sarebbe crollato. Non avrebbe a quel punto aperto la sua anima, perché Quaid potesse vedere e toccare? C'era tanto materiale da studiare nell'intimità di un uomo.
A poco a poco gli occhi di Steve si abituarono al buio.
Era imprigionato in una sorta di pozzo. Doveva essere largo circa sei metri e circolare. Era forse un pozzo di aerazione per una galleria, oppure per una fabbrica sotterranea? La mente di Steve evocò la zona circostante via del Pellegrino, cercando di individuare il luogo che con molta probabilità Quaid avrebbe scelto per i suoi scopi. Non gli venne il mente nessun luogo.
Nessun luogo.
Era perso in un posto che non poteva imprimersi nella mente né riconoscere. Il pozzo non aveva angoli su cui i suoi occhi potessero focalizzarsi e le pareti non offrivano né fessure né buchi in cui nascondere la sua consapevolezza.
Ma la cosa peggiore era che giaceva a braccia e gambe aperte su di una grata sospesa su questo pozzo. I suoi occhi non potevano valutare l'oscurità che stava sotto di lui: sembrava che il pozzo non avesse fondo. E c'era solo il sottile intreccio di sbarre e la fragile catena che gli imprigionava la caviglia, fra lui e quella voragine.
S'immaginò sospeso fra un cielo nero e vuoto sotto di sé ed un'oscurità infinita al di sopra. L'aria era calda e viziata. Gli asciugò le lacrime sgorgate all'improvviso, lasciandogli ciglia appiccicaticce. Quando cominciò a gridare aiuto, dopo che aveva smesso di piangere, l'oscurità divorò le sue parole.
Gridò fino a diventar rauco, ma poi si sdraiò di nuovo sulla grata. Non poteva fare a meno di pensare che sotto il suo fragile giaciglio, l'oscurità proseguiva all'infinito. Era assurdo, ovviamente. Nulla dura in eterno, disse ad alta voce.
Nulla dura in eterno.
Ma forse... Se fosse precipitato nel buio assoluto sotto di sé, avrebbe cominciato a cadere e cadere e cadere, senza vedere arrivare il fondo del pozzo. Per quanto cercasse di pensare a immagini più luminose, più positive, la sua mente rievocava la visione del suo corpo che precipitava nell'orribile pozzo, il fondo a pochi centimetri dal suo corpo lanciato nel vuoto, senza che gli occhi potessero vederlo, senza che la mente potesse prevederlo.
Fino allo schianto.
Avrebbe visto la luce mentre la sua testa si fracassava all'impatto? Avrebbe compreso, nel momento in cui il suo corpo diventava poltiglia, perché aveva vissuto e perché era morto?
Poi si fece strada un pensiero: Quaid non avrebbe dovuto osare. "Non avresti dovuto osare!" Strillò. "Non avresti dovuto osare!"
Il buio fece delle parole un sol boccone. Vi aveva urlato dentro, ma era come se non avesse mai proferito un suono.
Un altro pensiero venne alla luce. Questa volta veramente terribile: e se Quaid lo avesse rinchiuso proprio in quell'inferno circolare, perché così non lo avrebbero mai trovato, non lo avrebbero mai cercato? Forse voleva portare il suo esperimento ai limiti del possibile.
Ai limiti. La morte era ai limiti. Non sarebbe forse stato quello l'esperimento finale per Quaid? Osservare un uomo morire: osservare la nascita e la crescita della paura della morte, l'origine prima di tutte le paure. Sartre aveva scritto che nessun uomo avrebbe mai potuto conoscere la sua morte. Ma conoscere la morte degli altri, intimamente, osservare le acrobazie che la mente avrebbe sicuramente eseguito per evitare l'amara verità, questo era un indizio che poteva condurre alla natura della morte. Non era così? Seppur in minima parte, questo avrebbe potuto preparare un uomo alla morte. Vivere la paura di un altro in prima persona, era il modo più sicuro, più intelligente per toccare la bestia.
Sì, pensò, Quaid potrebbe uccidermi. Per perdere le sue paure.
Steve provò un'amara soddisfazione al pensiero che Quaid, lo sperimentatore imparziale, potenziale educatore, era ossessionato dalla paura perché la sua era la più tremenda.
Ecco perché doveva osservare gli altri lottare con i loro fantasmi. Aveva bisogno di un'assoluzione, una via d'uscita per se stesso.
Per elaborare questi pensieri gli ci vollero ore. Nell'oscurità la mente di Steve era limpida come cristallo, ma incontrollabile. Trovò difficile concentrarsi a lungo. I suoi pensieri erano come pesci, piccoli, velocissimi pesci, che sgusciavano via dalla sua mano appena li afferrava.
Ma alla base di ogni distorsione mentale c'era la consapevolezza che doveva battere Quaid. Doveva stare calmo. Doveva dimostrare a se stesso che era un soggetto inutile per le analisi di Quaid.
Le fotografie scattate durante questa fase, mostravano Stephen coricato sulla griglia con gli occhi chiusi con un'espressione lievemente corrucciata. In alcune occasioni, paradossalmente, gli aleggiava un sorriso sulle labbra. In alcuni momenti era impossibile dire se stesse dormendo o se era sveglio, se pensasse o sognasse.
Quaid attese.
Alla fine gli occhi di Steve cominciarono a tremolare sotto le palpebre, segno inconfondibile che stava sognando. Era giunto il momento, mentre il soggetto stava dormendo, di dare un giro di vite.
Steve si svegliò con le mani ammanettate. Accanto a lui, su un piatto, c'era una brocca d'acqua. E poco distante, un altro recipiente pieno di porridge insipido e tiepido. Mangiò e bevve volentieri.
Mentre mangiava, registrò due cose. Primo, che il rumore prodotto dalla masticazione sembrava molto forte nella sua testa e, secondo, si sentiva una costrizione, una stretta attorno alle tempie.
Le fotografie mostrano Strephen mentre si porta la mano alla testa. Una cinghia intorno alla fronte gli tiene bloccati due tappi che gli sono stati conficcati nelle orecchie. Nessun suono può entrare.
Le fotografie mostrano sbigottimento. Poi rabbia. Poi paura.
Steve era sordo.
Udiva solo i rumori che c'erano nella sua testa. Il battito dei suoi denti. L'impasto di saliva e la deglutizione del suo palato. I suoni gli rimbombavano fra le orecchie come cannonate.
Lacrime gli salirono agli occhi. Prese a calci la grata, senza udire il colpo secco dei tacchi sulle sbarre di metallo. Urlò finché gli sembrò che gli sanguinasse la gola. Non udì le proprie grida.
Il panico cominciò a farsi strada in lui.
Le fotografie ne mostravano la nascita: il volto arrossato, gli occhi sbarrati, i denti e le gengive esposte in una smorfia.
Sembrava una scimmia spaventata.
Fu sopraffatto dalle sensazioni familiari dell'infanzia. Le ricordava come i volti di vecchi nemici. Le labbra tremanti, il sudore, la nausea. In un gesto disperato, afferrò la brocca d'acqua e se la gettò sulla faccia. Lo choc dell'acqua fredda distolse momentaneamente la sua mente dal vortice di panico in cui stava scivolando. Ritornò a sdraiarsi sulla grata, il corpo rigido come un pezzo di legno. Si ordinò di respirare profondamente e regolarmente.
Rilassati, rilassati, rilassati, disse ad alta voce.
Nella testa, sentiva la lingua schioccare. Riusciva a sentire anche il muco, che si muoveva lentamente nelle narici otturate dal panico, che si bloccava e sbloccava nelle orecchie. Adesso riusciva a percepire il sibilo basso, lieve, che stava in agguato sotto tutti gli altri rumori. Il suono della sua mente...
Era simile al fruscio di quando si cambia stazione alla radio, era lo stesso sfrigolio che accompagnava l'anestesia, lo stesso sibilo che precedeva il sonno.
Le labbra si contraevano ancora nervosamente ed era solo parzialmente consapevole del modo in cui dimenava le mani, indifferente ai bordi taglienti delle manette che gli scalfivano i polsi.
Le fotografie fissarono in modo preciso tutte queste reazioni. La sua lotta contro l'isterismo, i suoi patetici tentativi di contenere la paura. Le sue lacrime. I suoi polsi insanguinati.
Alla fine lo sfinimento ebbe la meglio sul panico. Come accadeva così spesso quando era bambino. Quante volte si era addormentato con il sapore salato delle lacrime nel naso e nella bocca, incapace di continuare a lottare?
Lo sforzo aveva alzato il livello dei rumori nella sua testa. Ora, invece di una ninna nanna, il cervello lo accompagnava nel sonno con fischi e urla.
L'oblio era bello.
Quaid era deluso. Dalla velocità della sua reazione, era chiaro che Stephen Grace sarebbe crollato di lì a poco. Infatti, a sole poche ore dall'inizio dell'esperimento, era praticamente distrutto. E Quaid aveva riposto tutte le sue speranze in Stephen. Dopo mesi passati a preparare il terreno sembrava che questo soggetto stesse per uscire di senno senza rivelare un singolo indizio.
Una parola. Una miserabile parola era tutto ciò di cui Quaid aveva bisogno. Un piccolo segno che spiegasse la natura dell'esperienza. O meglio ancora, qualcosa che suggerisse una soluzione, un totem curativo, persino una preghiera. Senza dubbio, mentre la personalità scivola gradatamente nella follia, doveva essere invocato qualche Salvatore. Doveva esserci qualcosa.
Quaid attese come un avvoltoio sul luogo di qualche atrocità, contando i minuti che separavano quell'anima dalla fine, nella speranza di un buon boccone.
Steve si svegliò con la faccia contro la grata. L'aria si era fatta più pesante e le sbarre di metallo gli trafiggevano la guancia. Era accaldato e scomodo.
Rimase immobile in quella posizione, lasciando che gli occhi si riabituassero all'oscurità. Le linee della griglia si diramavano verso la parete del pozzo in una prospettiva perfetta. Il semplice intreccio di barre incrociate gli parve bello. Sì, bello. Studiò attentamente le linee, avanti e indietro con gli occhi, finché non fu stanco di quel gioco. Annoiato, rotolò sulla schiena, sentendo la grata vibrare sotto il corpo. Era meno stabile ora? Quando si muoveva si sentiva indolenzito.
Accaldato e sudato, Steve si slacciò la camicia. Aveva il mento sporco di bava, ma non si preoccupò di pulirsi. Che importava se sbavava? Chi avrebbe visto?
Si sfilò in parte la camicia e, facendo leva con i piedi, si tolse le scarpe.
Scarpa: grata: caduta. Lentamente, la mente fece la connessione. Si mise a sedere. Oh, povera scarpa. La sua scarpa sarebbe precipitata. Sarebbe scivolata fra le sbarre e si sarebbe persa nel vuoto. Ma no. Era rimasta in equilibrio fra una sbarra e l'altra. Poteva ancora salvarla, se avesse tentato.
Allungò una mano per prendere la sua povera, povera scarpa e il movimento provocò uno spostamento della grata.
La scarpa cominciò a scivolare.
"Per favore," pregò, "non cadere." Non voleva perdere la sua bella scarpa, la sua graziosa scarpa. Non doveva cadere. Non doveva cadere.
Nell'allungarsi per afferrarla fece vibrare la grata, la scarpa si inclinò, infilandosi nella grata e precipitando nel buio.
Emise un grido di disperazione che non poté udire.
Oh, se solo avesse potuto sentire la scarpa che cadeva. Contare i secondi della sua caduta. Udire l'impatto contro il fondo del pozzo. Per lo meno avrebbe saputo qual era la distanza che lo separava dalla morte.
Non poté resistere più a lungo. Rotolò sullo stomaco e infilò le braccia attraverso la grata urlando:
"Anch'io voglio cadere! Anch'io!"
Non poteva sopportare di aspettare di cadere, nel buio, con quel silenzio carico di lamenti. L'unica cosa che desiderava era di seguire la sua scarpa nella caduta, giù, giù nello scuro pozzo fino all'estinzione e porre fine una volta per tutte a quel gioco.
"Voglio cadere! Voglio cadere! Voglio cadere!" urlò. Supplicò la gravita.
Sotto di lui, la grata si mosse.
Qualcosa si era rotto. Un perno, una catena, una fune che teneva la grata in posizione si era spezzata. Non era più orizzontale. Stava già scivolando sulle sbarre mentre veniva inclinato nel buio.
Comprese con sgomento che non aveva più gli arti incatenati.
Sarebbe precipitato.
L'uomo voleva che cadesse. L'uomo cattivo... Come si chiamava? Quake? Quail? Quarrel...
Automaticamente afferrò la grata che continuava ad abbassarsi. Forse non voleva seguire la sua scarpa, dopo tutto. Forse valeva la pena tenersi stretti alla vita ancora un attimo, ancora un attimo...
Il buio oltre il bordo della griglia era così profondo. Chi poteva indovinare che cosa si nascondeva laggiù?
Nella testa le voci del panico si moltiplicarono. I battiti sordi del suo cuore sanguinante, il rantolo del muco, lo stridore secco del suo palato. Le palme, bagnate di sudore, stavano perdendo la presa. La gravita lo voleva, reclamava i diritti sul suo corpo, chiedeva che cadesse. Per un attimo, guardando da sopra la spalla la voragine che si apriva sotto di lui, credette di vedere dei mostri che si agitavano nell'oscurità. Esseri ridicoli, folli, deformi, buio su buio. Graffiti ripugnanti sgusciavano lascivi dalla sua infanzia e spalancavano i loro artigli per ghermirgli le gambe.
"Mamma," gemette mentre le mani lo tradivano e veniva ingoiato nella paura.
"Mamma."
Era quella la parola. Quaid la udì chiaramente, in tutta la sua banalità.
"Mamma!"
Quando Steve giunse sul fondo del pozzo, non era ormai più in grado di giudicare quanto fosse durato il suo volo. Nel momento in cui le mani avevano lasciato la presa e aveva compreso che il buio l'avrebbe inghiottito, il cervello era saltato. Sopravvisse solo l'istinto animale che gli fece rilassare il corpo, evitando che l'impatto fosse mortale. Il resto della sua vita, tutto tranne le risposte più elementari, si era frantumato, e i frammenti vennero scagliati nei recessi della sua memoria.
Quando la luce giunse, alla fine, alzò lo sguardo sulla persona con la maschera di Topolino ferma sulla porta e gli sorrise. Era un sorriso infantile, un sorriso di riconoscenza rivolto a quel comico salvatore.
Lasciò che l'uomo lo afferrasse per le caviglie e lo trascinasse fuori dalla grande stanza rotonda in cui giaceva. Aveva i pantaloni bagnati e sapeva che si era sporcato nel sonno.
La testa gli ciondolava sulle spalle mentre veniva trascinato fuori dalla camera di tortura. Sul pavimento, accanto alla sua testa c'era una scarpa. E due, tre metri sopra la sua testa c'era la grata da cui era caduto.
Non significava nulla per lui.
Lasciò che Topolino lo mettesse a sedere in una stanza luminosa. Lasciò che Topolino gli restituisse l'udito, per quanto non gli interessasse veramente riaverlo. Era buffo osservare il mondo senza suoni. Lo faceva ridere.
Bevve dell'acqua e mangiò qualche biscotto.
Era stanco. Voleva dormire. Voleva la sua mamma. Ma Topolino sembrava non capire, perciò si mise a urlare, a prendere a calci il tavolo e gettò a terra piatti e tazze. Poi corse nella stanza vicino e gettò in aria tutte le carte che riuscì a trovare. Era bello vederle svolazzare. Alcune caddero a faccia in su, altre a faccia in giù. Alcune erano piene di parole. Alcune erano delle immagini. Immagini orribili. Immagini che gli diedero una strana sensazione.
Erano tutte immagini di persone morte, una dopo l'altra senza esclusione. Alcune ritraevano bambini piccoli, altre ragazzi più grandi. Erano distesi oppure semiseduti e c'erano dei grandi squarci sui loro volti e sui loro corpi, tagli che lasciavano intravedere un ammasso caotico... un guazzabuglio di frattaglie lucenti e melmose. Attorno alle persone morte: pittura nera. Ma non uniforme. Grandi macchie schizzate qua e là, con segni di ditate, di manate, in un vortice di caos.
Su tre o quattro foto era visibile l'oggetto servito per il massacro. Steve ne conosceva il nome.
Ascia.
C'era un'ascia conficcata nella faccia di una donna, fin quasi al manico. C'era un'ascia nella gamba di un uomo e un'altra giaceva sul pavimento di una cucina, accanto ad un bambino morto.
Quest'uomo faceva raccolta di fotografie di persone morte e di asce, e questo, pensò Steve, era molto strano.
Quello fu il suo ultimo pensiero, prima che l'odore anche troppo familiare del cloroformio gli riempisse la testa e perdesse conoscenza.
La lurida soglia puzzava di urina vecchia e di vomito recente. Era il suo vomito. La camicia ne era piena. Cercò di alzarsi, ma le gambe non lo ressero. Faceva molto freddo. La gola gli faceva male.
Poi udì dei passi. Forse Topolino stava tornando indietro. Forse l'avrebbe portato a casa.
"Alzati, figliolo."
Non era Topolino. Era un poliziotto.
"Che fai lì per terra? Ti ho detto di alzarti."
Steve si aggrappò ad un mattone traballante e si issò in piedi. Il poliziotto lo illuminò con la torcia.
"Santo Dio," disse il poliziotto, con il disgusto dipinto sulla faccia. "Sei in uno stato da fare schifo. Dove abiti?"
Steve scosse la testa, fissando la camicia intrisa di vomito, come uno scolaretto vergognoso.
"Come ti chiami?"
Non riusciva a ricordare bene.
"Il nome, ragazzo."
Si stava sforzando. Se solo quel poliziotto avesse smesso di sbraitare.
"Forza. Datti un contegno."
Quelle parole non gli dicevano molto. Steve sentì le lacrime pungergli gli occhi.
"Casa."
Cominciò a piagnucolare, a tirar su con il naso, sentendosi disperatamente abbandonato. Voleva morire. Voleva distendersi e morire.
Il poliziotto lo scosse.
"Sei fatto?" chiese, spingendo Steve sotto la luce dei lampioni e fissando il suo volto rigato di lacrime.
"Farai meglio a darti una mossa."
"Mamma," disse Steve, "voglio la mia mamma."
Quelle parole mutarono completamente la situazione.
Improvvisamente il poliziotto trovò quello spettacolo più che nauseante; più che patetico. Questo piccolo bastardo, con gli occhi iniettati di sangue e la cena rovesciata sulla camicia, lo stava veramente mandando fuori dai gangheri. Troppi soldi, troppo sudiciume nelle sue vene, pochissima disciplina.
"Mamma," fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gli sferrò un pugno nello stomaco. Un colpo secco, tagliente, funzionale. Steve si piegò in due, frignando.
"Taci, ragazzo."
Un altro pugno rese definitivamente innocuo il ragazzo, poi gli afferrò i capelli e tirò la faccia del piccolo drogato vicino alla sua.
"Vuoi fare il derelitto, non è così?"
"No. No."
Steve non sapeva che cosa fosse un derelitto. Voleva solo rendersi simpatico al poliziotto.
"Per favore," disse, con le lacrime agli occhi, "mi porti a casa."
Il poliziotto sembrava confuso. Quel ragazzo non aveva cercato di difendersi, non aveva reclamato i suoi diritti civili, come tanti di loro facevano. Solitamente finivano così: per terra, il naso sanguinante, a reclamare un'assistente sociale. Quello piangeva e basta. Il poliziotto cominciò ad avere delle brutte sensazioni su quel ragazzo. Forse era mentalmente ritardato o qualcosa del genere. E lui che lo aveva pestato a sangue. Affanculo. Ora si sentiva responsabile. Afferrò Steve per un braccio e lo accompagnò in fretta e furia alla macchina, dall'altra parte della strada.
"Entra."
"Mi porti..."
"Sì, figliolo, ti porto a casa. Ti porto a casa."
Al dormitorio frugarono nei vestiti di Steve alla ricerca di qualche documento d'identificazione, ma non trovarono nulla, poi controllarono che non avesse addosso pulci, o pidocchi. Il poliziotto dopo un po' se ne andò e Steve si sentì sollevato. Non gli piaceva quell'uomo.
Le persone al dormitorio parlavano di lui come se lui non fosse presente. Discutevano di quanto fosse giovane; della sua età mentale; dei suoi vestiti; del suo aspetto. Poi gli diedero un pezzo di sapone e lo accompagnarono alle docce. Rimase sotto lo scroscio di acqua fredda per dieci minuti, dopo di che si asciugò con un asciugamano sporco. Non si fece la barba, anche se gli avevano prestato un rasoio. Aveva dimenticato come si faceva.
Poi gli diedero dei vestiti vecchi che gli piacquero. In fondo non erano persone malvagie, anche se parlavano di lui come se non ci fosse. Una di loro gli aveva persino sorriso; un uomo tarchiato con la barba brizzolata. Lo stesso sorriso che avrebbe rivolto a un cane. Gli diedero dei vestiti spaiati. O troppo grandi o troppo piccoli. Di tutti i colori, calze gialle, una camicia bianca sudicia, pantaloni a righine che dovevano essere stati fatti per un ciccione, un giubbotto logoro e un paio di scarponi. Gli piaceva vestirsi, mettersi due maglie e due paia di calze una sopra l'altra, quando non guardavano. Si sentiva più sicuro avvolto in più strati di cotone e lana.
Lo lasciarono lì, con un tagliando per il letto nella mano, ad attendere che i dormitori fossero aperti. Non era impaziente come alcuni degli uomini che erano con lui nel corridoio. Molti di loro protestavano scambiandosi volgarità e sputi. Quello spettacolo lo spaventò. Tutto ciò che desiderava era dormire. Coricarsi e dormire.
Alle undici uno degli inservienti aprì la porta del dormitorio e tutte quelle anime perse si precipitarono dentro alla ricerca di un letto di ferro per la notte. Il dormitorio, uno stanzone scarsamente illuminato, puzzava di disinfettante e di vecchiaia umana.
Evitando gli occhi e le braccia supplicanti degli altri derelitti, Steve si trovò un letto malfatto, con un'unica leggera coperta buttata sopra. Si coricò per dormire. Attorno a lui gli uomini tossivano, borbottavano, piagnucolavano. Uno con la testa appoggiata sul suo cuscino grigio, stava recitando le preghiere, gli occhi rivolti al soffitto. Steve pensò che fosse una buona idea. Così si mise a recitare anche lui una preghiera che ricordava dai tempi dell'infanzia.
"O mio Caro Buon Gesù,
Proteggi sempre questo piccolo bambino,
Abbi pietà della mia...
Qual era la parola?
Abbi pietà della mia... semplicità,
Lascia che io possa venire a te."
Si sentì meglio dopo quella preghiera. E il sonno, una benedizione, fu dolce e profondo.
Quaid sedeva nel buio. Il terrore lo aveva sopraffatto ancora una volta, più forte che mai. Aveva il corpo rigido per la paura. Così rigido che non riusciva nemmeno a scendere dal letto per accendere la luce. E se questa volta, a differenza di tutte le altre, il suo terrore fosse stato reale? E se l'uomo con l'accetta fosse stato sulla porta in carne ed ossa? A guardarlo con quel suo ghigno da mentecatto, danzando come un demonio in cima alle scale, proprio come Quaid l'aveva visto nei suo sogni, che ballava e ghignava, ghignava e ballava. Nulla si mosse. Nessuno scricchiolio dalle scale, nessuna risatina nell'ombra. Non era lui. Quaid sarebbe sopravvissuto fino al mattino.
Il suo corpo si era rilassato un po'. Abbassò le gambe dal letto e accese la luce. La stanza era veramente vuota. La casa avvolta nel silenzio. Attraverso la porta aperta poteva vedere la cima delle scale. Ovviamente non c'erano uomini con l'accetta.
Steve si svegliò per le grida. Era ancora buio. Non sapeva quanto aveva dormito, ma gli arti non gli dolevano più come prima. Si tirò su appoggiando i gomiti sul cuscino e guardò in fondo al dormitorio per capire che cosa fosse tutta quella confusione. Quattro file più in là, due uomini si stavano picchiando. Il motivo del litigio non era per niente chiaro. Lottavano, avvinghiati l'uno all'altro come ragazze (a Steve venne da ridere a guardarli), e strillavano e si tiravano i capelli. Sotto la luce lunare il sangue che rigava i loro volti e le loro mani era nero. Uno di loro, il più vecchio, era stato spinto all'indietro sul letto e urlava: "Non andrò in Finchley Road! Non ci riuscirai. Non mi picchiare! Non sono il tuo uomo! Non sono io."
L'altro non stava neanche ascoltando. Era troppo stupido o troppo pazzo per comprendere che il vecchio lo stava pregando di lasciarlo stare. Incalzato dagli spettatori che si erano affollati attorno, l'aggressore si era tolto una scarpa con cui prese a colpire la sua vittima. Steve riusciva a sentire il tonfo secco che seguiva a ogni colpo: il tacco sulla testa. Ogni colpo veniva accompagnato da grida d'incoraggiamento e da invocazioni sempre più deboli da parte del vecchio.
All'improvviso, lo schiamazzo diminuì. Era entrato qualcuno. Steve non riusciva a vedere chi fosse. La massa di uomini affollatisi intorno ai due litiganti gli precludeva la vista della porta.
Riuscì tuttavia a vedere il vincitore che lanciava in aria la sua scarpa, con il grido finale di "fottuto!"
La scarpa.
Steve non riusciva a staccare gli occhi dalla scarpa. Si levò nell'aria, roteando mentre saliva, poi ripiombò sul nudo pavimento come un uccello morto. Steve la vide chiaramente, molto più chiaramente di qualsiasi altra cosa avesse visto in quegli ultimi giorni.
Era caduta non lontano da lui.
Era caduta con un tonfo sordo.
Era caduta su di un fianco. Com'era caduta la sua scarpa. La sua scarpa. Quella che si era tolto. Sulla grata. Nella stanza. Nella casa. In via del Pellegrino.